VIOLENZA Io, lesbica, stuprata voglio giustizia di Delia Vaccarello

VIOLENZA Io, lesbica, stuprata voglio giustizia di Delia Vaccarello
«L e donne della Versilia sono forti come il marmo. Ho cercato di essere forte quando a 13 anni mi piacevano le donne. Ero attratta da due professoresse, quella di ginnastica e la collega di religione. Avevano i capelli biondi e gli occhi azzurri. Ho capito che in famiglia dovevo tacere. Ho cercato di essere forte quando mi hanno stuprata dicendomi: “Brutta lesbica, ora tocca a te”. Avevo 16 anni quando, innamorata di una coetanea, ho deciso di rompere il silenzio e di parlare con i miei fratelli. Anche allora ho dovuto trovare dentro di me la tenacia della pietra. Due di loro mi hanno tolto il saluto, e una delle sorelle mi ha detto: “fai schifo”. Ho continuato a essere me stessa. Ora, dopo la violenza, voglio giustizia». A parlare è Paola, occhi neri spaventati, sorriso aperto. È la donna lesbica che il diciotto agosto è stata violentata a Torre del Lago. La sua storia mostra che lo stupro è «solo» un anello, micidiale, della catena di aggressioni alimentata dal pregiudizio. «Ormai da tempo vivo da sola con mia madre ultraottantenne, e la accudisco. Sono rimasta l’unica, mentre tutti gli altri si sono sposati. E ho capito che questo marmo di cui siamo fatte è ricco di venature, di sfumature di sentimento, di cura. Per tre anni ho lavorato il marmo. In laboratorio arrivavano i blocchi grezzi e io li trasformavo in lastre levigate. Tornavo a casa e continuavo. Facevo i mosaici, inserivo nelle superfici una luna, un sole. La pietra diventava per quella sera il mio cielo. Imparavo l’arte della forza e del coraggio. In questi anni, ho levigato tante parti di me per evitare che i pregiudizi e i rifiuti mi indurissero. Sono stata fidanzata con un ragazzo, che non a caso era molto femminile. Si curava molto, andava spesso dall’estetista. Ho provato a vedere se funzionava, abbiamo vissuto insieme. Finita la storia ho mantenuto con lui rapporti sereni. Ho lottato sempre contro la violenza dei pregiudizi nel desiderio di vivere la vita piena che mi spetta. Quando mi hanno stuprata, in pineta a Torre del Lago, due settimane fa, sono ritornata un blocco grezzo di pietra, dura. Da lavorare di nuovo. Non immaginavo che i giovani potessero essere così violenti. Ora non posso più vedere i maschi etero. Mi fanno schifo. Le notti mi sveglio e sento le mani ruvide del violentatore afferrarmi da dietro. Torna la sua voce. L’offesa. Non so se riuscirò a cancellare questa impressione. Vorrei che la mia anima diventasse di nuovo liscia, pronta ad accogliere la luna e il sole. Voglio che i miei aggressori vengano arrestati». I primi rifiuti sono arrivati presto. «Mia madre non è stata una donna affettuosa. È slava, abituata alla durezza. Poco espansiva fisicamente, come se non conoscesse il valore delle carezze. Mio padre ha fatto il carabiniere. In famiglia siamo tanti, tra fratelli e sorelle. Talmente tanti che la nostra educazione ai genitori deve essere un po’ sfuggita di mano. Io ho sempre sofferto del silenzio. Ma non ho scelto di nascondermi. Dai sedici ai venti anni ho amato la mia compagna di banco. Poi abbiamo preso due strade diverse, lei si è sposata e adesso è madre. Quando l’ho detto ai miei, mio padre ha risposto: “non cambia niente, sei mia figlia”. Mia madre voleva che mi sistemassi – marito, figli e così via -, ma quando ha capito che la mia felicità era con una donna è ritornata nel suo silenzio di sempre. Solo adesso, che viviamo insieme, si è lasciata sfuggire: “visto come sono gli uomini, preferisco che sei come sei”. Quando ho parlato di me sapevo che andavo incontro a possibili rotture. Ma la reazione dei miei fratelli mi ha fatto male lo stesso. Così le parole terribili di una sorella: “Sei malata. Non sei degna di far parte della famiglia. Fai schifo. Fai male a mamma”. Ho faticato tanto per digerirle. Il clima non è cambiato quando dai 20 ai 23 anni sono stata fidanzata con Giuseppe, compreso il periodo della nostra convivenza, durata dieci mesi. I miei fratelli hanno mantenuto le loro ostilità. A Giuseppe ho detto subito che avevo amato una donna. Se avesse mostrato di avere pregiudizi, lo avrei lasciato all’istante. Tra noi è finita perché non ho retto un suo tradimento. Ma finora eravamo rimasti in ottimi rapporti. Dopo di lui ho avuto una serie di storie con donne durate circa tre anni. Vengo sempre lasciata, forse perché sono fedele. Se mi piace qualcuna fuori dalla coppia, avverto. Non metto nessuna dinanzi al fatto compiuto. Le altre alla fine dicono che si annoiano. Frequento i locali della Marina, facendo amicizie o solo conoscenze. Sono posti tranquilli, risse non ne succedono. Conosci gente del luogo, ma anche di tante altre città. Devi soltanto stare attenta a mantenere la distanza quando incontri le coppie di donne. Altrimenti si sentono invase, oppure una delle due ci prova, e salta l’amicizia. La sera del diciotto, come ogni sera, ho cenato con mia madre. Ci dividiamo i compiti. A pranzo cucina lei, io preferisco restare leggera e quindi c’è meno da fare. Alla cena ci penso io. Intorno alle 22.30 l’ho salutata, le ho ricordato come sempre il numero del mio cellulare, per ogni evenienza. In venti minuti sono arrivata alla Marina. Al bar con un gruppo di amiche abbiamo preso il caffè. Poi siamo andate a ballare. Verso le due c’era il pienone. Gay, lesbiche, trans e qualche etero che viene per curiosità o, meglio, per fare qualche incontro. Ma sono incontri a cui le due parti acconsentono, per una sera. Niente a che vedere con quello che è successo a me. Dinanzi ai bagni c’era una fila di dieci metri. Ho scelto di andare in pineta, insieme ad altre. Tutto è successo in un attimo. Mi afferrano, mi tappano la bocca, uno mi violenta, «Brutta lesbica». La vecchia ferita del rifiuto si riapre. Quando riesco a urlare scappano. Il mio grido mi fa toccare la realtà. Mi hanno violentata, non solo con le parole, e con l’ostilità, ma lacerando ciò che il mio corpo ha di più intimo. In quel momento sono saltati tutti i buoni rapporti con il maschile che ero riuscita a mantenere. Una settimana fa mi ha telefonato il mio ex fidanzato, Giuseppe. Per un prendere un gelato. Ho detto che non potevo: “ho l’esaurimento nervoso”. Non riesco a frequentare gli etero. Non per ora, almeno. In questi giorni ho pensato a tutti quelli che sostengo fisicamente. Dopo aver lavorato il marmo, sono diventata operatrice socio sanitaria. Ho il diploma. In famiglia ho voluto dimostrare che valgo. Aiuto i disabili, gli anziani. Con la delicatezza di un contatto empatico che da piccola non ho conosciuto e che ho imparato da grande. Con la morbidezza capace di alleviare le ferite delle menomazioni, della vecchiaia. Adesso sono io che ho bisogno di aiuto. Mi sento rigida. Di pietra, ma in un altro senso. Bloccata. Il ciclo mestruale ha avuto un forte ritardo. Succede, mi hanno detto. Finora ho pianto di rabbia. La rabbia di non aver risposto con un calcio. Vorrei piangere tutto il mio dolore. Liberarmi. Ritrovare la mia lucidità. Splendere di nuovo, come il marmo che rende forti le donne della Versilia. delia.vaccarello@tiscali.it
5 settembre 2006 pubblicato nell’edizione Nazionale (pagina 25) nella sezione "Liberi"

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